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La discussione sulla riforma del mercato del lavoro


Allarme articolo 18...

  

di Valentina Da Rold

ARTICOLO 8

Da mesi la discussione nei giornali e in tv s’incentra sull’art. 18. In questo modo le pesanti modificazioni introdotte attraverso l’art. 8 del cosiddetto “decreto di Ferragosto” (d.l. n.138, del 13 agosto 2011), modificato e convertito nella legge 148 del 14 settembre 2011, sono passate in secondo piano, e sono sconosciute ai più.

 

In questi anni, da parte dei vari governi si è prima intrapresa e poi continuata una sistematica opera di smantellamento delle tutele del lavoro dipendente, sino alla definitiva privatizzazione del diritto sindacale e del lavoro.

  

La novità più importante introdotta dall’articolo 8 riguarda l’efficacia “erga omnes” (nei confronti di tutti) che i contratti aziendali acquisiscono nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto si riferisce, purché tali contratti siano stati stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano territoriale o aziendale e che il contratto aziendale sia stato approvato con votazione dalla maggioranza dei lavoratori.

  

L’articolo, la cui applicazione sia sciaguratamente concordata con sindacati compiacenti, è tale da scardinare il contratto nazionale, creando, potenzialmente, una giungla di contratti aziendali che possono derogare su quasi tutti gli aspetti fondamentali del lavoro subordinato, come le mansioni del lavoratore, l’inquadramento del personale, i contratti ad orario ridotto, il ricorso alla somministrazione, le modalità di assunzione, la disciplina del rapporto di lavoro (comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto), la trasformazione e la conversione dei contratti e le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, nel senso che una gestione cosiffatta dell'articolo in questione permette la libertà di licenziare (tranne il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in costanza di matrimonio e quello della lavoratrice in maternità), con tanti saluti all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

  

In questo modo la funzione della contrattazione collettiva decentrata risulta radicalmente cambiata; se prima essa produceva una spinta propulsiva in ambiti spazio-temporali circoscritti che la contrattazione nazionale e non di rado la legge (e precipuamente lo Statuto dei Lavoratori) s’incaricavano di allargare, ora tale contrattzione è soprattutto adatta a modificare in peius l’intera normativa preesistente.

  

E' bene precisare, per essere chiari,  che con l’introduzione della Legge 148/11 non è stato affatto modificato l’articolo 18 dello Statuto del Lavoratori, ma è stata riconosciuta alle parti sociali maggiore autonomia contrattuale. E dunque, però, anche le imprese con più di 15 dipendenti, previo accordo sindacale, in caso di licenziamento intimato senza giusta causa, potrebbero accordarsi con la controparte nel senso del pagare un’indennità al lavoratore, così come avviene nelle piccole imprese, senza dover necessariamente reintegrare il lavoratore.

 

 

ARTICOLO 18

Coloro che propugnano "il superamento" dell'art. 18 della L. 300/70, sguaiatamente berciando o sobriamente infinocchiando, sembrano quasi non averlo mai letto (testo art.18). Questi cotali sostengono infatti che le aziende oggi sono disincentivate dall’assumere perché sarebbe, dicono, troppo difficile licenziare alla stregua di questa norma; e che chi si ostina a difendere tale norma lo fa a discapito delle nuove generazioni di precari, che non riescono ad ottenere un posto di lavoro.

  

La difesa di esso articolo, invece, non giova solo a coloro che oggi hanno un lavoro “a tempo indeterminato”, ma è un dovere propriamente nei confronti delle nuove generazioni, che, mancando questo presidio di civiltà giuridica, si troverebbero in una condizione di ricattabilità, di insicurezza e di debolezza persino peggiore della condizione di chi vive e subisce quel che è ormai precariato tradizionale e anzi addirittura sistemico.

  

Si vuole abbattere l'ultimo vero baluardo a difesa dei diritti, delle libertà e, sia detto fuori di qualsiasi retorica, della dignità dei lavoratori, ed è per questo che non si può accettare il contraddittorio sopra una questione, sulla quale non può esservi trattativa alcuna.

 

L’art. 18 disciplina quel che succede nel caso in cui un licenziamento sia dichiarato illegittimo. Un licenziamento è dichiarato illegittimo quando è posto in essere fuori dai casi disciplinati dalla legge, e cioè: giusta causa, giustificato motivo oggettivo, giustificato motivo soggettivo. L'art. 18, dunque, stabilisce quel che succede quando un datore di lavoro licenzia senz’alcun motivo legittimo un lavoratore. In tutti i casi in cui il licenziamento invece sia legittimo, corrisponda cioè allo schema tipico della giusta causa o dei giustificati motivi, l'art. 18 non si applica già adesso.

 

La giusta causa si configura come un fatto talmente grave da ledere la fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, come può esserlo il furto in azienda, la rissa, e tutti quei comportamenti che incidono sulla futura sostenibilità del rapporto di lavoro.

In questi casi si può legittimamente licenziare.

 

Il giustificato motivo oggettivo ricorre quando l'azienda si trovi in uno stato di crisi strutturale e non congiunturale perché, ad esempio, ha perso una commessa o ha visto contrarre considerevolmente i ricavi o aumentare i costi di produzione.

 In questi casi è sempre legittimo licenziare.

 

Il giustificato motivo soggettivo, poi, ricorre nei casi d’inadempimenti gravi degli obblighi contrattuali assunti dai lavoratori, e quindi nei casi di sistematicamente mancato rispetto degli orari di lavoro, di scarso impegno, ecc.

 

Per non parlare del caso, già previsto dal medesimo articolo 18, dei licenziamenti collettivi, che coinvolgendo obbligatoriamente i sindacati sono attuabili legittimamente non solo da quelle aziende che versino in condizioni di crisi ma addirittura anche da quelle che vogliano semplicemente ristrutturare e/o convertire l'attività imprenditoriale.

 

Questo civilissimo articolo va dunque difeso, ed anzi allargato a quanti dalle tutele che esso sancisce sono tuttora esclusi, così da evitare licenziamenti ingiusti ed ingiustificabili, come ad esempio quelli basati sul fatto che il licenziato/a ha i baffi o è ebreo, o porta l'orecchino, o ha orientamenti politici che non piacciono al datore di lavoro, o è iscritto a un sindacato o, meglio ancora, magari è una donna.

 

 

 

Non si comprende poi come mai per la riforma del mercato del lavoro sia così centrale la discussione sull’art.18 (o meglio, lo si comprende benissimo: il vero obiettivo è di umiliare e distruggere quanto resta in Italia di sindacato non americanizzato, non subalterno, non “sindacato giallo”) dal momento che il suo peso e la sua importanza sono pressoché irrilevanti, perché il numero di casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni grazie all'art. 18 è inferiore al migliaio, e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell'economia reale e sui suoi fondamentali. Vigendo quest'articolo, investimenti profitti livello dei salari esportazioni e consumi sono andati bene o male, ma per cause completamente diverse. La "posizione ideologica", cioè fondamentalista, cioè fanatica, di cui vengono accusati i difensori dell'art. 18, è dunque tutta dall'altra parte.  


marzo 2012

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